Nella prima repubblica si chiamava semplicemente “democrazia dei partiti”. Certo, in quella lunga fase storica, e seppur tra alti e bassi, c’era anche la “democrazia nei partiti”. Categoria, questa, che con l’avvento dei ‘partiti personali e del capo’ è stata del tutto rimossa se non addirittura cancellata. Anche perchè il pluralismo interno che caratterizzava i tradizionali partiti popolari, di massa, interclassisti e di governo che abbiamo conosciuto nel passato è stato sacrificato sull’altare della cieca identificazione con il capo. E qui risiede anche la differenza con la classe dirigente di un tempo. Non a caso, a metà degli anni duemila, si sosteneva tranquillamente la tesi che la differenza fondamentale tra la prima e la seconda repubblica - ed eravamo ancora prima dell’avvento del populismo dei 5 stelle, cioè del ‘nulla della politica’ - era che “nella prima c’erano i leader politici mentre nella seconda restano solo più i capi”. E, non a caso, la regola fondamentale dei partiti personali non è nè il merito, nè la capacità, nè il radicamento territoriale e tantomeno l’espressività sociale ma solo e soltanto la fedeltà assoluta nei confronti del capo.
Eppure, malgrado questa deriva, è indubbio che senza i partiti organizzati e popolari semplicemente non esiste la democrazia. Che, appunto, si fonda sulla valorizzazione del pluralismo politico, sociale, culturale e valoriale. E gli unici strumenti in grado di rafforzare e consolidare i valori e la stessa prassi della democrazia sono e restano i partiti. Ma non partiti purchessia. Perchè su questo versante resta di straordinaria attualità e modernità una riflessione di un grande storico come Sandro Fontana della metà degli anni ‘80 - e quindi in un contesto radicalmente diverso rispetto a quello contemporaneo ma dove già emergevano alcune avvisaglie pericolose che poi si sono puntualmente avverate - quando ricordava che “se vuoi capire l’efficacia democratica delle riforme istituzionali proposte dai vari partiti è appena sufficiente verificare come quel partito pratica la democrazia al suo interno”. Una osservazione di straordinaria attualità anche sul versante della bontà delle svariate riforme istituzionali, e costituzionali, che vengono puntualmente sfornate dai vari partiti.
Per queste ragioni, semplici ma essenziali, non c’è certamente alcuna alternativa democratica e liberale alla presenza dei partiti popolari e organizzati. Purchè si riesca a coniugare la “democrazia dei partiti” con la “democrazia nei partiti”. E questa sarebbe anche la più bella dimostrazione che la politica non è solo una esercitazione astratta e del tutto virtuale ma diventa coerenza e serietà quando si parla di qualità della democrazia e credibilità delle nostre istituzioni democratiche.
Ecco perchè il rilancio, la ricostruzione e la riorganizzazione dei partiti popolari e di massa deve coincidere con lo stesso cambiamento e rinnovamento della intera politica italiana. E questo non solo perchè si tratta di soggetti politici costituzionalmente previsti e garantiti ma anche perchè l’alternativa concreta ai partiti restano i regimi illiberali, autocratici e dispotici. E, al riguardo, la lezione del passato politico italiano conserva ancora una straordinaria attualità anche per orientare e accompagnare la cittadella politica contemporanea. A cominciare, appunto, dal ruolo, dalla funzione e dalla ‘mission’ dei partiti politici.
Giorgio Merlo
